Mentre la osservo sento profumi di more, di frutti di bosco in confettura, peperone, china, rabarbaro. Ha il pelo morbido e liscio, è giovane e si muove con agilità, si sente che arriva dalle montagne. Difficile capire perchè in città, ma si sa che in questo periodo di chiusura tanti animali si sono avvicinati alle zone abitate. Penso piuttosto che sia fuggita da qualche vineria della Darsena che ora pullula di cacciatori in divisa blu, immagino la paura. Ha lasciato una scia fruttata che faceva coppia amorevolmente con i sentori d’affinamento, penso a vaniglia e liquirizia. Trasmette calma osservarla. Una calma indotta appena deglutito il primo sorso, pensi che devi prenderti il tempo giusto, che le sfumature contano e ad ogni sorso ne percepisci di nuove. In etichetta la giovane lepre di Albrecht Dürer, simbolo di naturalità, avvalora anche la mia tesi sulla calma. È ferma, a riposo, con le orecchie alzate e il naso attento. Passano tanti profumi e se la metti in tavola, allora sì, si mette a correre e sfodera le sue doti di abbinamento. Zampe potenti per piatti importanti, brasati, selvaggina. Gran bella lepre, quella del 2015. Me la guardo ancora, con calma, finché resta.
Faye rosso di Pojer e Sandri, Faedo (TN). Blend di Cabernet Sauvignon 50%, Cabernet Franc, Merlot e Lagrein per l’altro 50%.
Milano 6 aprile 2020. Come si fa a scrivere di vino quando c’è una pandemia ed un bollettino quotidiano di morti?, me lo chiedo ogni volta che mi appresto a farlo da un mese a questa parte. Vengo invaso da un senso di colpa, per i sanitari che rischiano la vita e per chi già l’ha persa vittima del virus. Poi però cerco di vedere un accenno di primavera in questa desolazione di lutti e mi convinco che ogni granello di speranza e di positività possa costruire un’isola dove stare meglio anche se per poco.
Mi piacerebbe far dimenticare per un attimo i problemi a chi vive situazioni di stress e far ricordare che esistono tante piccole e grandi cose belle, come il vino. Non il vino da ingollare per stordirsi e dimenticare, ma quello responsabile, fatto di conoscenza e rispetto, storia e passione. Un momento di piacere e di scoperta per distrarsi un attimo dalle preoccupazioni e magari programmare l’acquisto di una bottiglia di vino italiano.
E allora scelgo un vino ‘resistente’ come vorrei che fossimo tutti noi di fronte al virus. Il Silvo di Villa Persani lo è, proviene da uve resistenti alle principali malattie fungine della vite. L’uva di Souvignier Gris di cui è principalmente composto questo spumante, è un incrocio di Vitis vinifera con altre Vitis (americana, asiatica…).
Tornando un attimo alla situazione che viviamo, è ormai chiaro a tutti che ‘niente sarà più come prima‘ e forse sarà anche il momento di accelerare le scelte nel mondo del vino per quanto riguarda l’allevamento della vite. La sostenibilità ambientale non è più procrastinabile. Pesticidi e metalli pesanti nel terreno e nelle uve dovrebbero sparire o quantomeno essere ridotti al minimo indispensabile. I vini da vitigni resistenti (anche chiamati Piwi o Iperbio) rispondono già a questa esigenza e al concetto di ‘naturalità‘ nel vino. Una risposta nuova che in realtà arriva da un secolo di studi, incroci e selezioni qualitative.
Il Silvo è già ‘oltre‘, anche nel modo di presentarsi. Innanzitutto la bottiglia, da mezzo litro, la misura perfetta per 2 persone e per un aperitivo frizzante ed informale. Poi il tappo a corona avvolto dalla capsula bianca, questo si mi riporta il sorriso, spettacolo. Villa Persani, l’Azienda Agricola di Silvano Clementi di Pressano (TN), riesce a coniugare immagine e sostanza in questa bottiglia fuori dal comune.
Nel calice è luminoso con una leggera torbidità dovuta alla rifermentazione in bottiglia senza sboccatura. Altra particolarità è che per la seconda fermentazione non vengono aggiunti zuccheri come nel metodo classico tradizionale ma bensì il solo succo d’uva in cui sono naturalmente presenti gli zuccheri.
I profumi sono floreali, penso ad una rosa delicata e fruttati di agrumi, arancia, pompelmo, poi i frutti tropicali, ananas e litchi. In bocca trasmette una sensazione minerale, sapida e una piacevole acidità. È abbastanza persistente a dal retrogusto fruttato. Si apprezza per la freschezza e la possibilità di abbinarlo facilmente. Ottima ‘bollicina’, fresca, scorrevole e soprattutto sana. Il Silvo è definito Bio Vegan e giusto per mettermi in sintonia con l’informalità che lo caratterizza, l’ho abbinato (e non me ne vogliate a male), con crudo di Parma e burrata 😋.
Della stessa cantina ho assaggiato anche l’Aromatta, un’altro vino ‘resistente’ dalla bottiglia slanciata e altissima. Nell’Aromatta i profumi sono molto intensi, aromatici, ricorda subito il moscato con le note di petali di rose, ma anche profumi di frutto della passione e agrumi, mandarino e note tioliche di erbaceo e sottile fumé. In bocca è fragrante e minerale, sapido, via via si espande in un finale più morbido e dolce con richiami al fieno e al miele.
Terzo ed ultimo vino assaggiato è sempre un incrocio ma questa volta da vitigni tradizionali del Trentino, Teroldego e Lagrein. È il Nero Silvo, un vino ricco di polifenoli e antociani dal colore intenso e dai sentori di more, bacche scure, tabacco, sottobosco. In bocca è fragrante, fresco, con un finale di ribes e rabarbaro che lascia una sensazione fresca e minerale. Il volume alcolico non elevato, del 12%, rende questo vino facilmente bevibile.
In conclusione posso dire che aldilà della piacevolezza di tutti i vini assaggiati ho apprezzato molto la sensazione di bere vini sani ...naturali davvero. Li trovate direttamente sul sito web di Villa Persani.
Malgrado le preoccupazioni che il Covid19 ha portato nelle nostre vite, resta la voglia di conservare quelle abitudini che ci rendono la vita più gioiosa. Nel mio caso si tratta dell’abitudine di stappare una bottiglia ogni 2/3 giorni. Per restare in tema ‘malattie’, ho scelto un vino da uve resistenti alle malattie fungine. L’augurio è che anche noi, così come le viti di questo Solaris, possiamo resistere al Corona virus.
A produrre questo Solaris 2018 è la Cantina Plonerhof di Marlengo (Merano), in Alto Adige. Il Solaris è un vitigno ottenuto nel 1975 a Friburgo dall’incrocio di Merzling (Seyve Villard 5.276 x Riesling x Pinot Gris) e GM6493 (Zarya Severa x Muscat Ottonel). In soldoni, è un vitigno ottenuto da incroci di varietà di Vitis vinifera insieme a Vitis amurensis (varietà asiatica da cui ha preso una piccola parte che resiste alle malattie). Questo tipo di viti consente di avere il più basso numero di trattamenti in vigna con rame e zolfo, che può essere anche nullo nelle belle annate.
I vini da viti resistenti, anche chiamati Iperbio/Hyperbio o PIWI (dal tedesco pilzwiderstandfähig, viti resistenti ai funghi), sono ciò che di più sano ed integro possa esserci in termini di vino.
Fatta la necessaria presentazione veniamo al vino che ho davanti. Alla vista non ha niente di differente da altri ‘bianchi’, il colore è giallo paglierino brillante. L’olfatto è invece complesso, inizialmente di frutti esotici come l’ananas, la mela gialla fragrante, i fiori di campo, una leggera speziatura e qualcosa di vegetale.
In bocca conferma una struttura complessa, con una notevole acidità e sapidità che lo rende facilmente bevibile. Gli aromi retronasali sono di frutta a polpa bianca matura, pesca, mela. Si allunga in un bel finale fruttato. La nota morbida di contorno mi ricorda certi Chardonnay. Basta poco però a percepire il volume alcolico consistente (14%) per ricredermi e dirottare le mie sensazioni ad un’altro vino bianco che amo, il Pecorino.
Questo Solaris è un gran bel vino. Aromi, corpo, equilibrio ed armonia. Tutto ciò giustifica il costo di circa 20€.
In due, a cena, non ci accorgiamo quasi e alla fine la bottiglia è vuota e le palpebre pesanti. Per fortuna non dovevo mettermi alla guida e l’unico tragitto che dovevo fare era quello verso la camera da letto 😅 (è comunque un vino perfettamente digeribile e l’indomani eravamo freschi come le rose).
Quello che più mi piace di questo Solaris, è la coesistenza di sensazioni che generalmente appartengono a vini diversi, cioè una parte fruttata, fresca e una parte morbida e opulenta tipica dei vini bianchi passati in legno.
Ricevere del vino in regalo è sempre una bella sopresa. Anche se hai assaggiato più volte un vino fatto un determinato vitigno, ogni volta che apri una bottiglia scopri qualcosa di nuovo e se la bottiglia arriva da una cantina che non conosci allora stai certo che la sorpresa sarà ancora più grande. Quindi, ‘scartato’ il pacco e versato il contenuto, mi sono catapultato in montagna, ad oltre 700 m slm, con l’aria fresca, i profumi di montagna e il suono dei ruscelli che scorrono verso valle. A produrre questo Kerner è la Cantina Toblino di Sarche di Calavino (TN), nella Valle di Laghi, insieme ad oltre 600 soci viticoltori. Il colore è giallo tenue con riflessi verdognoli, immagina un sole tenue. Dal calice fuoriescono profumi freschi di fiori bianchi, erbe aromatiche come timo e rosmarino. Ci sono poi quelle note particolari che, seppur ancora giovani e tendenzialmente fruttate (è un 2017), ricordano gli idrocarburi (note tipiche del Riesling). Infatti il Kerner è un vitigno ottenuto dall’incrocio di due specie molto diffuse; il Riesling renano (proveniente dalla Germania) e la Schiava (Trollinger) tipica del Trentino. In bocca è scorrevole, fresco, minerale. Al floreale si aggiungono aromi di mela ma ci trovo anche dell’ananas. Ha una bella sapidità e struttura. Il nome del vitigno Kerner è stato dato da August Herold quando ha creato l’incrocio nel 1929. È un omaggio al medico e poeta Justinus Kerner che aveva scritto poesie sul vino. Kerner è però famoso per altre due cose: essere stato l’inventore della Kleksografia, l’arte di produrre una immagine piegando un foglio con macchie di inchiostro, tecnica poi usata in psicologia da Hermann Rorschach nei suoi test diagnostici (vedi link); l’altro motivo è uno dei suoi tanti scritti, quello dedicato alla veggente di Prevorst, una giovane ragazza che ha ospitato e studiato, la quale aveva capacità chiaroveggenti e medianiche (alla fine Kerner raccolse numerose prove di veridicità sulle capacità della ragazza). Ora, sul vino, verrebbe facile di trovarci qualcosa di magico, ma preferisco rimanere sui dati oggettivi. Un nome non cambia la sostanza e questo vino ne ha abbastanza per non demandare ad altro la sua bontà. Alla freschezza che lo rende perfetto per un aperitivo, si aggiunge una buona persistenza aromatica ed una piacevole sensazione succosa che ricorda la mela appena masticata. L’ho degustato con piacere accompagnandolo ad un’orata al forno con patate. Ne stapparei un’altra bottiglia e questa è la prova definitiva di veridicità.
È un vino Piwi, da pilzwiderstandsfähige Rebsorte, cioè varietà resistenti alle malattie fungine. Si tratta del Bronner 2018 di Elena Walch, con sede a Tramin in Alto Adige. I profumi sono delicati, primaverili, di fiori bianchi, acacia, mela acerba. In bocca si allunga confermando il bouquet floreale. È fresco e minerale, sapido, con un bel corpo e sensazioni vellutate sul finale. I vini Piwi come questo, sanno sorprendere e trasmettere note particolari che sembrano appartenere a mondi diversi e che invece stanno insieme in armonia. Il vitigno Bronner, è stato ottenuto nel 1975 incrociando (per innesto), il Merzling e il Geisenheim 6494, due varietà naturali che hanno tra i loro progenitori il Riesling e il Pinot grigio. In effetti, essendo un 2018 c’è qualcosa che ricorda il Riesling in giovinezza. Mi piace molto per la sua mineralità (uso proprio questo termine che fa discutere e incavolare tanti esperti), aldilà della salinità, è la sensazione di ardesia, di pietre di fiume che mi ricorda questo vino. Nel complesso è elegante e di carattere. Il prezzo si aggira sui 14€. Perfetto come aperitivo ma lo vedrei bene anche con una cremosa burrata.
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